venerdì 28 agosto 2015

Intervista ad Alberto per rockol.it

‘Muratori del rock’. Alberto Ferrari dei Verdena racconta il cantiere aperto di “Endkadenz Vol. 2”

Ci sono tre concetti che mi sembrano centrali riguardo a “Endkadenz”. Il primo è quello di distorsione. Persino la tua voce suona effettata. È come se la musica fosse così intensa da mandare il suono in sovraccarico.

Abbiamo attaccato tutte le distorsioni possibili e abbiamo composto il disco con questi suoni in cuffia. Vedi, il suono viene prima dei pezzi. L’album prende i colori dal sound, non solo dalle emozioni che esprime.
 
E com’è nata quest’idea?
Dal fatto che ci hanno regalato molti pedali. E poi avevo visto gli Aucan usare una pedaliera sulla voce con la quale facevano di tutto, anche i controcanti. Ci siamo armati di tutta quest’attrezzatura e abbiamo fatto il disco. Niente di pensato. Come sempre, iniziamo a caso per poi ottenere un disco con un colore che non possiamo più cambiare.
 
Il secondo concetto è quello d’istinto musicale. Ovvero, mi pare che queste canzoni, sia nel loro sviluppo a volte imprevedibile, sia negli arrangiamenti seguano logiche istintuali. Date l’impressione di essere alla caccia di quel che è giusto per la canzone in una sorta di ricerca guidata dal puro istinto…
È esattamente così, non saprei dirlo meglio.
 
Perciò non seguite assunti, idee o preconcetti…
No no, questo disco è stato scritto direttamente in sala prove. L’idea era essere il più possibile istintivi.
 
Proprio pensando a questo ho scritto che “Endkadenz” è un cantiere aperto…
Anch’io la vedo così. Siamo bergamaschi e quindi un po’ muratori del rock. Più andiamo avanti e più siamo così: è tutto in costante costruzione. È un modo per cercare nuove vie rispetto al passato.
 
È ciò che rende la musica più avventurosa, no?
Esatto, è la nostra intenzione. Vogliamo che chi ascolta si diverta. E poi più andiamo avanti, più siamo lenti nel fare i dischi.
 
Questa lentezza è solo una condanna o anche un fatto positivo, un tratto caratteristico del vostro carattere di gruppo?
Entrambe le cose. Il problema è la mole di materiale. Avevamo 400 pezzi all’inizio, in certi momenti è stato snervante.
 
Ci sono altre canzoni finite nate da quelle 400 idee, oltre alle 26 che avete pubblicato?
No, perché le bobine sono preziose, devi essere preciso, non puoi spendere troppi soldi: durano 30 minuti, costano quasi 500 euro l’una, bisogna farsele spedire dall’estero. Una volta che scegliamo i pezzi, li finiamo… e le altre idee non sviluppate se ne vanno affanculo. E poi le bobine si rovinano se le ascolti, quindi è meglio riascoltarle il meno possibile. Il bello della bobina è che ci costringe ad essere stretti, sennò ciao, se usassimo il digitale non finiremmo mai. Però i cd con le idee che non abbiamo sviluppato sono interessanti, divertenti da ascoltare…
 
Il terzo concetto legato a “Endkadenz” è quello di schizofrenia. Sembra quasi che i due album siano governati dal disordine.
Esatto. Abbiamo cercato di portare i pezzi da qualche altra parte buttandoci dentro riff e parti vocali. Alcuni sono jam. Il “Waltz del bounty” è esattamente come l’abbiamo jammato, un po’ come “Inno del perdersi” sul primo volume.
 
Ecco, “Waltz del bounty”: è una chiusura quasi opposta da quella cupa di “Funeralus”.
È un pezzo folk andante, quasi allegretto. È in maggiore, una cosa rara per noi.
 
Mi puoi dire qualcosa di “Colle immane”, che è stato scelto come pezzo per lanciare il volume 2?
È l’unico brano non schizofrenico del disco, ha una struttura pop strofa-ritornello. Il regista Donato Sansone sta curanto il video. Noi non vi appariamo nemmeno, non avevamo tempo. È un video d’animazione fatto in tempi record, una decina di giorni.
 
Nel secondo “Endkadenz” Marco Fasolo dei Jennifer Gentle produce “Identikit”…
Ha sconvolto il pezzo rispetto a com’era all’inizio. Dal vivo la facciamo com’era una volta, una sorta di metal acustico. L’idea di mettere dentro tutti quegli strumenti è stata di Marco. Li ha portati lui da casa sua.
 
Fasolo potrebbe funzionare come produttore di un intero album dei Verdena, no? Voi fate tutto da soli, non avete mai preso in considerazione l’idea di affidarvi a un produttore esterno?
È una cosa a cui a volte pensiamo, ma dovremmo arrivare in studio con l’album pronto, mentre sinora i nostri dischi sono stati work in progress. Probabilmente accadrà sul prossimo, ma in questo momento non ho le idee chiare, c’è di mezzo la tournée. Da Marco ho imparato tantissimo. Mi piacerebbe rifare qualcosa con lui.
 
Tra i momenti eccentrici mi piace la coda di “Dymo”. Mi ha ricordato certe colonne sonore anni ’60.
Inizialmente c’erano solo piano, batteria e basso. Poi l’abbiamo stratificata mettendoci sopra tanta di quella roba… La coda mi ricorda le vecchie pubblicità anni ’70 e qualcosa di “Anima latina” di Battisti. Tutte cose non volute: ci stupiamo anche noi della piega che prendono le canzoni.
 
In quello e in altri pezzi dell’album appaiono molti strumenti, ma non sono sempre riconoscibili o udibili. Sono come camuffati. È voluto?
Sì, affossiamo sempre le sovraincisioni per non snaturare l’idea di fondo del pezzo, che nasce in sala prove con tre strumenti, e per non avere difficoltà dal vivo dove certe canzoni sarebbero improponibili. È vero, teniamo tutto abbastanza nascosto.
 
In Italia, forse per via dell’influenza del cantautorato, il rock ha spesso dato molto peso ai testi, che si ritiene debbano essere importanti. Voi prediligete il suono delle parole rispetto al senso. È un fatto intenzionale o istintivo?
Scrivo i pezzi in un inglese maccheronico, anzi nemmeno inglese, è una cosa strana, tipo inglese-arabo. Però ogni volta che riprovo la canzone i suoni si ripetono, ci sono le stesse lettere esattamente negli stessi punti. Verso la terza prova inizio ad affinare il testo. A quel punto suona così bene, così adatto alla musica, che non posso che ricalcare in lingua italiana la fonetica dell’inglese maccheronico, riprendendo tutte le lettere lì dove sono, le “s” o le “t” nei punti giusti. È anormale, ma lo faccio da sempre. Solo che ai tempi di “Solo un grande sasso” ci mettevo 2 minuti a canzone, oggi ci metto un mese.
 
Il suono dell’italiano ricalca quello dell’inglese, quindi?
Sì, ma allo stesso tempo cerco di non dire cazzate. Non voglio dire cose troppo importanti, per non distogliere l’attenzione dalla musica, ma nemmeno troppo insensate. O meglio, sui pezzi rock non mi spiace essere completamente insensato, su quelli acustici mi piace seguire una linea.
 
Nella tua testa quindi, alcune canzoni hanno un senso, altre meno…
Sì, alcune sono basate su giochi di parole, altre hanno una logica. Ma non scrivo mai a caso. Ogni singola lettera che mi senti cantare è stata studiata profondamente e provata più e più volte. Sai, è la prima volta che spiego per bene questa cosa e a pensarci è inspiegabile. I testi devono avere una coerenza, ma probabilmente questa coerenza è solo nel mio cervello.
 
Mi puoi fare un esempio tratto da “Endkadenz Vol. 2”?
Fammi pensare… In questi giorni stiamo provando un pezzo, non so come si chiama, la traccia quattro…
 

Un blu sincero”.
Quello. Ricantandolo mi è sembrato di parlare con una specie di Dio, di fargli domande sulla sua esistenza.  

Non l’avrei mai detto…
Anch’io l’ho capito solo in questi giorni. Ho una sensazione e cioè che nei testi parlo sempre e solo di amicizia e amore. Nei primi dischi parlavo anche di sesso, ora mi sembra di cantare sempre di legami che iniziano o finiscono. C’è qualcosa che non va in me, ma non riesco a capire cosa. È come se vedessi il mio inconscio e cercassi di spiegarlo nei testi, ma ovviamente non si capisce un cazzo. Ho un inconscio molto confuso. Ma sento che sulla nostra musica questa cosa ci sta.

Con Roberta e Luca parli dei testi?
No, in sala prove si parla solo di suoni, si discute se una frase suona bene o male, non si parla del senso delle canzoni. Però è come se loro capissero quello che voglio e perciò volessero aiutarmi.
 
Una curiosità: l’Ozzy di “Natale con Ozzy” è Osbourne?
In realtà è il nome del mio gatto, che effettivamente si chiama così per via dei Black Sabbath. Comunque il titolo l’ha scelto Luca.
 
A quanto pare le opinioni su di voi sono polarizzate. Qual è, se c’è, il maggiore equivoco che riguarda i Verdena?
Forse questa cosa dei testi, la pretesa che debbano raccontare qualcosa.
 
Il tour continua, ma puoi fare un primo bilancio?
Non credevo che ci fosse ancora gente disposta ad ascoltarci, anche giovane.
 
Quanti pezzi suonerete del volume 2?
Conoscendoci, direi nove o dieci. Tratteremo il primo “Endkadenz” come un disco vecchio e faremo tutto come se succedesse di nuovo, da capo, tornando nelle città dove siamo già passati col volume 1.
 
Dopo “Endkadenz”, che segue altri due lavori mastodontici come “Wow” e “Requiem”, percepisco la necessità di un cambiamento. È così?
A manetta. Quei tre dischi li vedo come una sorta di ciclo. Ora deve succedere qualcosa di forte nella nostra musica affinché possiamo continuare a migliorarci.
 
Vedi qualcosa all’orizzonte?
Ancora no, ma la voglia di cambiare i connotati del gruppo è tanta. Vorremmo uscire da quel buco della nostra sala, ad esempio. Durante i giorni liberi tra una data e l’altra abbiamo già cominciato a scrivere qualcosa. Gli strumenti sono sul furgone e perciò stiamo suonando quel che è rimasto in sala, robe stranissime tipo le custodie degli strumenti microfonate dall’interno o l’iPad usato in modo assurdo. Viene fuori roba strana. È un bene.
 
(Claudio Todesco) from: http://www.rockol.it/news-646199/verdena-endkadenz-nuovo-album-intervista-alberto-ferrari?refresh_ce


 
 

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