‘Muratori del rock’. Alberto Ferrari dei Verdena racconta il cantiere aperto di “Endkadenz Vol. 2”
Ci sono tre concetti che mi sembrano centrali riguardo a “Endkadenz”. Il primo è quello di distorsione. Persino la tua voce suona effettata. È come se la musica fosse così intensa da mandare il suono in sovraccarico.
Abbiamo attaccato tutte le distorsioni possibili e abbiamo composto il
disco con questi suoni in cuffia. Vedi, il suono viene prima dei pezzi.
L’album prende i colori dal sound, non solo dalle emozioni che esprime.
E com’è nata quest’idea?
Dal fatto che ci hanno regalato molti pedali. E poi avevo visto gli
Aucan usare una pedaliera sulla voce con la quale facevano di tutto,
anche i controcanti. Ci siamo armati di tutta quest’attrezzatura e
abbiamo fatto il disco. Niente di pensato. Come sempre, iniziamo a caso
per poi ottenere un disco con un colore che non possiamo più cambiare.
Il secondo concetto è quello d’istinto musicale. Ovvero, mi
pare che queste canzoni, sia nel loro sviluppo a volte imprevedibile,
sia negli arrangiamenti seguano logiche istintuali. Date l’impressione
di essere alla caccia di quel che è giusto per la canzone in una sorta
di ricerca guidata dal puro istinto…
È esattamente così, non saprei dirlo meglio.
Perciò non seguite assunti, idee o preconcetti…
No no, questo disco è stato scritto direttamente in sala prove. L’idea era essere il più possibile istintivi.
Proprio pensando a questo ho scritto che “Endkadenz” è un cantiere aperto…
Anch’io la vedo così. Siamo bergamaschi e quindi un po’ muratori del
rock. Più andiamo avanti e più siamo così: è tutto in costante
costruzione. È un modo per cercare nuove vie rispetto al passato.
È ciò che rende la musica più avventurosa, no?
Esatto, è la nostra intenzione. Vogliamo che chi ascolta si diverta. E
poi più andiamo avanti, più siamo lenti nel fare i dischi.
Questa lentezza è solo una condanna o anche un fatto positivo, un tratto caratteristico del vostro carattere di gruppo?
Entrambe le cose. Il problema è la mole di materiale. Avevamo 400 pezzi all’inizio, in certi momenti è stato snervante.
Ci sono altre canzoni finite nate da quelle 400 idee, oltre alle 26 che avete pubblicato?
No, perché le bobine sono preziose, devi essere preciso, non puoi
spendere troppi soldi: durano 30 minuti, costano quasi 500 euro l’una,
bisogna farsele spedire dall’estero. Una volta che scegliamo i pezzi, li
finiamo… e le altre idee non sviluppate se ne vanno affanculo. E poi le
bobine si rovinano se le ascolti, quindi è meglio riascoltarle il meno
possibile. Il bello della bobina è che ci costringe ad essere stretti,
sennò ciao, se usassimo il digitale non finiremmo mai. Però i cd con le
idee che non abbiamo sviluppato sono interessanti, divertenti da
ascoltare…
Il terzo concetto legato a “Endkadenz” è quello di schizofrenia. Sembra quasi che i due album siano governati dal disordine.
Esatto. Abbiamo cercato di portare i pezzi da qualche altra parte
buttandoci dentro riff e parti vocali. Alcuni sono jam. Il “Waltz del
bounty” è esattamente come l’abbiamo jammato, un po’ come “Inno del
perdersi” sul primo volume.
Ecco, “Waltz del bounty”: è una chiusura quasi opposta da quella cupa di “Funeralus”.
È un pezzo folk andante, quasi allegretto. È in maggiore, una cosa rara per noi.
Mi puoi dire qualcosa di “Colle immane”, che è stato scelto come pezzo per lanciare il volume 2?
È l’unico brano non schizofrenico del disco, ha una struttura pop
strofa-ritornello. Il regista Donato Sansone sta curanto il video. Noi
non vi appariamo nemmeno, non avevamo tempo. È un video d’animazione
fatto in tempi record, una decina di giorni.
Nel secondo “Endkadenz” Marco Fasolo dei Jennifer Gentle produce “Identikit”…
Ha sconvolto il pezzo rispetto a com’era all’inizio. Dal vivo la
facciamo com’era una volta, una sorta di metal acustico. L’idea di
mettere dentro tutti quegli strumenti è stata di Marco. Li ha portati
lui da casa sua.
Fasolo potrebbe funzionare come produttore di un intero album
dei Verdena, no? Voi fate tutto da soli, non avete mai preso in
considerazione l’idea di affidarvi a un produttore esterno?
È una cosa a cui a volte pensiamo, ma dovremmo arrivare in studio con
l’album pronto, mentre sinora i nostri dischi sono stati work in
progress. Probabilmente accadrà sul prossimo, ma in questo momento non
ho le idee chiare, c’è di mezzo la tournée. Da Marco ho imparato
tantissimo. Mi piacerebbe rifare qualcosa con lui.
Tra i momenti eccentrici mi piace la coda di “Dymo”. Mi ha ricordato certe colonne sonore anni ’60.
Inizialmente c’erano solo piano, batteria e basso. Poi l’abbiamo
stratificata mettendoci sopra tanta di quella roba… La coda mi ricorda
le vecchie pubblicità anni ’70 e qualcosa di “Anima latina” di Battisti.
Tutte cose non volute: ci stupiamo anche noi della piega che prendono
le canzoni.
In quello e in altri pezzi dell’album appaiono molti
strumenti, ma non sono sempre riconoscibili o udibili. Sono come
camuffati. È voluto?
Sì, affossiamo sempre le sovraincisioni per non snaturare l’idea di
fondo del pezzo, che nasce in sala prove con tre strumenti, e per non
avere difficoltà dal vivo dove certe canzoni sarebbero improponibili. È
vero, teniamo tutto abbastanza nascosto.
In Italia, forse per via dell’influenza del cantautorato, il
rock ha spesso dato molto peso ai testi, che si ritiene debbano essere
importanti. Voi prediligete il suono delle parole rispetto al senso. È
un fatto intenzionale o istintivo?
Scrivo i pezzi in un inglese maccheronico, anzi nemmeno inglese, è una
cosa strana, tipo inglese-arabo. Però ogni volta che riprovo la canzone
i suoni si ripetono, ci sono le stesse lettere esattamente negli stessi
punti. Verso la terza prova inizio ad affinare il testo. A quel punto
suona così bene, così adatto alla musica, che non posso che ricalcare in
lingua italiana la fonetica dell’inglese maccheronico, riprendendo
tutte le lettere lì dove sono, le “s” o le “t” nei punti giusti. È
anormale, ma lo faccio da sempre. Solo che ai tempi di “Solo un grande
sasso” ci mettevo 2 minuti a canzone, oggi ci metto un mese.
Il suono dell’italiano ricalca quello dell’inglese, quindi?
Sì, ma allo stesso tempo cerco di non dire cazzate. Non voglio dire
cose troppo importanti, per non distogliere l’attenzione dalla musica,
ma nemmeno troppo insensate. O meglio, sui pezzi rock non mi spiace
essere completamente insensato, su quelli acustici mi piace seguire una
linea.
Nella tua testa quindi, alcune canzoni hanno un senso, altre meno…
Sì, alcune sono basate su giochi di parole, altre hanno una logica. Ma
non scrivo mai a caso. Ogni singola lettera che mi senti cantare è
stata studiata profondamente e provata più e più volte. Sai, è la prima
volta che spiego per bene questa cosa e a pensarci è inspiegabile. I
testi devono avere una coerenza, ma probabilmente questa coerenza è solo
nel mio cervello.
Mi puoi fare un esempio tratto da “Endkadenz Vol. 2”?
Fammi pensare… In questi giorni stiamo provando un pezzo, non so come si chiama, la traccia quattro…
“
Un blu sincero”.
Quello. Ricantandolo mi è sembrato di parlare con una specie di Dio, di fargli domande sulla sua esistenza.
Non l’avrei mai detto…
Anch’io l’ho capito solo in questi giorni. Ho una sensazione e cioè
che nei testi parlo sempre e solo di amicizia e amore. Nei primi dischi
parlavo anche di sesso, ora mi sembra di cantare sempre di legami che
iniziano o finiscono. C’è qualcosa che non va in me, ma non riesco a
capire cosa. È come se vedessi il mio inconscio e cercassi di spiegarlo
nei testi, ma ovviamente non si capisce un cazzo. Ho un inconscio molto
confuso. Ma sento che sulla nostra musica questa cosa ci sta.
Con Roberta e Luca parli dei testi?
No, in sala prove si parla solo di suoni, si discute se una frase
suona bene o male, non si parla del senso delle canzoni. Però è come se
loro capissero quello che voglio e perciò volessero aiutarmi.
Una curiosità: l’Ozzy di “Natale con Ozzy” è Osbourne?
In realtà è il nome del mio gatto, che effettivamente si chiama così
per via dei Black Sabbath. Comunque il titolo l’ha scelto Luca.
A quanto pare le opinioni su di voi sono polarizzate. Qual è, se c’è, il maggiore equivoco che riguarda i Verdena?
Forse questa cosa dei testi, la pretesa che debbano raccontare qualcosa.
Il tour continua, ma puoi fare un primo bilancio?
Non credevo che ci fosse ancora gente disposta ad ascoltarci, anche giovane.
Quanti pezzi suonerete del volume 2?
Conoscendoci, direi nove o dieci. Tratteremo il primo “Endkadenz” come
un disco vecchio e faremo tutto come se succedesse di nuovo, da capo,
tornando nelle città dove siamo già passati col volume 1.
Dopo “Endkadenz”, che segue altri due lavori mastodontici come
“Wow” e “Requiem”, percepisco la necessità di un cambiamento. È così?
A manetta. Quei tre dischi li vedo come una sorta di ciclo. Ora deve
succedere qualcosa di forte nella nostra musica affinché possiamo
continuare a migliorarci.
Vedi qualcosa all’orizzonte?
Ancora no, ma la voglia di cambiare i connotati del gruppo è tanta.
Vorremmo uscire da quel buco della nostra sala, ad esempio. Durante i
giorni liberi tra una data e l’altra abbiamo già cominciato a scrivere
qualcosa. Gli strumenti sono sul furgone e perciò stiamo suonando quel
che è rimasto in sala, robe stranissime tipo le custodie degli strumenti
microfonate dall’interno o l’iPad usato in modo assurdo. Viene fuori
roba strana. È un bene.
(Claudio Todesco) from:
http://www.rockol.it/news-646199/verdena-endkadenz-nuovo-album-intervista-alberto-ferrari?refresh_ce